Leggendo cosa voleva dire arrampicare negli anni '80, mi sono fermato a pensare cosa vuol dire arrampicare oggi, per noi negli anni '20 della pandemia, della crisi climatica e della guerra in Ucraina.
È una giornata come tante quella in cui inizio a leggere “Zanzara e Labbradoro”, il libro su Roberto Bassi, uno di quelli che l’arrampicata sportiva in italia l’ha fatta nascere.
Lo scopo che mi sono dato è riprendere il podcast ideato ormai due anni fa, nel primo lockdown, dove parlo di arrampicata partendo dai libri e dalle storiche figure descritte in quelle pagine.
Mi piace raccontare l’arrampicata, sia quella che vivo con i Brocchi, sia quella vissuta da altri. Mi piace il pensiero che le persone, sentendo le storie, si possano rivedere e che la fiamma dell’arrampicata si accenda ancora più forte dentro di loro. La verità è che mi piacciono le storie, mi piace leggerle e raccontarle, quindi in fondo lo faccio per me.
Però stavolta succede qualcosa di strano, leggo le prime pagine e sono costretto a fermarmi.
Il libro parte raccontando i primi anni ‘80, il contesto nel quale si forma l’arrampicata sportiva in Italia: “…la pesantezza degli anni di piombo si fa ancora sentire, la strage alla stazione di Bologna ha segnato gli animi, proprio pochi mesi dopo l’abbattimento dell’aereo di Ustica. […] Jhon Lennon viene ucciso a New York, il terremoto piega il sud Italia e l’anno dopo Papa Giovanni Paolo II viene colpito quasi a morte da un proiettile. […] Gli effetti del boom economico post bellico hanno perso la loro forza. Le rivoluzioni culturali degli anni Sessanta, manipolate dai poteri forti per indebolire le proteste, sono ormai scemate e diversi giovani si sono buttati nelle droghe pesanti…”
Quello che mi porta a fermarmi alla pagina 3 non è quello che leggo, ma quello che mi risveglia dentro. Sento tutta di colpo la pesantezza di quello che sta succedendo alla mia generazione e a quella dopo.
Non che prima non ne fossi cosciente, dopotutto il mio lavoro è raccontare la crisi climatica, è solo che negli ultimi dieci giorni non mi ero davvero fermato a pensare ai recenti sviluppi della guerra in Ucraina, nel quadro più complesso della moltitudine di crisi mondiali. Sviluppi che si riflettono non solo nella crisi di un intero sistema, ma di un’intera generazione.
Crisi climatica, pandemia mondiale, crisi economica, indebolimento delle democrazie occidentali, e ora la minaccia di una guerra mondiale, con lo spettro nucleare che torna a incombere dopo decenni di sonno. È questo il contesto nel quale la mia generazione vive, cerca lavoro, impara ad amare, programma il futuro, studia, arrampica.
E’ così che racconteremo i primi anni ‘20 alle generazioni future.
Ripenso a me stesso, ai due mesi appena passati e mi accorgo che nonostante io abbia una vita che mi soddisfa, una stabilità sentimentale e un lavoro che mi piace, c’è solo un posto in cui mi sento sempre libero e sereno, un posto in cui non ci sono pensieri che pensano nella testa, dove non esiste l’eco ansia e neanche le notizie su una generazione sempre più disillusa: è l’arrampicata.
Negli anni ‘80, si legge nel libro su Bassi “la voglia di fare qualcosa di nuovo, di sperimentare, di infrangere le regole perbeniste, si allarga come un’onda anche nell’arrampicata. […] In poco tempo si diffonde il free climbing. L’arrampicata libera.”
Erano anni in cui la storia dell’arrampicata era tutta da scrivere. L’idea delle gare nasce in quegli anni e si realizza con Bardonecchia nel 1985, per far capire il livello in quell’anno la via più dura al mondo era “Punks in the Gym” di Gullich, 8b+. Le pareti erano laboratori dove gli arrampicatori creavano le loro vie e tra amori e rivalità andavano a dettare le regole di uno sport nascente.
Sono passati 40 anni e l’arrampicata è un altro mondo; non è più una novità ma uno sport olimpico, per i più c’è poco sia da sperimentare che da scoprire e impensabile è l’idea di poter diventare un atleta iniziando a scalare dopo i15 anni (ma probabilmente ancora prima).
Il grado massimo, 9c, è talmente alto che sono 5 anni che nessuno si avvicina all’idea di ripeterlo, figurarsi aumentarlo, sono state fatte imprese impensabili come il free solo di El Capitan, l’arrampicata indoor e outdoor stanno diventando due sport sempre più distinti.
Eppure una cosa non è cambiata. La ricerca della libertà.
Oggi come negli anni ‘80 arrampichiamo per ritagliarci uno spazio di libertà da una società nella quale non riusciamo a rispecchiarci.
Allora se penso a perché negli anni ‘20 del XXI secolo arrampichiamo direi che lo facciamo per fuggire da una società iper competitiva che ci vuole in perenne lotta gli uni con gli altri. Scaliamo per poter divertirci facendo inutili sforzi in un modello economico dove se non produci non esisti. Scaliamo per non pensare alla responsabilità di dover salvare un pianeta che ci è stato donato sull’orlo del baratro. Scaliamo perché vogliamo vivere il presente in una società in cui immaginare il futuro è sempre più difficile. Scaliamo per ritrovare la connessione con la natura in un mondo che da tempo l’ha dimenticata. Scaliamo perché l’arrampicata e il suo inutile gesto rappresentano, anche se solo per poche ore, la più grande libertà di fronte al compito generazionale di portare avanti un mondo in rovina.
Arrampichiamo perché una volta tolta la competitività e la ricerca della prestazione ad ogni costo, l’arrampicata è davvero libera.
Oggi come allora scaliamo per “la libertà di arrampicare, la libertà di vivere.”
Amedeo Cavalleri
Fotografie di Giulia Bussei e Roberto Mor